Non voglio entrare nel merito del film “La meglio gioventù” e delle sue genesi storiche e politiche. Per quanto potrebbe essere interessante, non è questa la sede per farlo.
Penso invece sia interessante riflettere su cosa possiamo fare, noi giovani psicologi, per non sentirci schiacciati dal peso di questi grandi dinosauri.
Professori, ma anche pazienti, clienti, amici e familiari.
Mi ci metto anch’io, tra i giovani professionisti, nonostante i miei 34 anni.
Perché, ancora una volta, ricomincio da zero, con le mie forze.
COME HO IMPARATO A NON DIVENTARE SCHIAVA DEL GIUDIZIO
Voglio raccontarti un aneddoto del mio precedente lavoro da orientatrice professionale, che penso possa far chiarezza su cosa voglia dire sentirsi piccoli e inesperti, ma far tesoro di questo per trasformarlo in un’apertura, in uno spiraglio di umanità e professionalità.
Circa un paio di anni fa sono stata assegnata, in qualità di orientatrice professionale, ad un progetto per la ricollocazione lavorativa delle persone over 40.
In pratica, persone che avevano perso il lavoro per colpa della crisi economica, facevano con me un percorso di orientamento professionale di 4 incontri, durante i quali avremmo trovato insieme un modo di ricollocarsi nel mercato del lavoro.
Parlando nei termini che oggi mi sono molto familiari, avremmo trovato insieme un nuovo perché e avremmo provato a metterlo in pratica, attraverso delle azioni mirate, ognuno alla propria storia personale e professionale.
Avevo già fatto l’orientatrice, così come mi ero già trovata a lavorare con persone più grandi di me e con più esperienza, e la cosa mi aveva sempre motivata a fare del mio meglio. Con quel pizzico di soggezione, che non guasta mai.
In questo caso, però, la situazione era molto diversa.
Erano persone che avevano perso il lavoro, e non per colpa di qualche comportamento scorretto. Persone con una famiglia di mantenere, arrabbiate, frustrate e a volte sole.
La storia che voglio raccontarti, è quella di un uomo molto più grande di me, un uomo di circa 60 anni, che dopo più di 30 anni nella stessa azienda, ha perso il lavoro.
Un uomo solo, con un padre malato a carico.
Un uomo che ha sempre vissuto per il padre e per il lavoro, raggiungendo anche discreti successi nell’ambito della sua professione.
Una professione però molto specifica, di difficile riqualificazione.
Insomma, ti sto parlando di un uomo molto arrabbiato, ma che dietro la sua rabbia, nascondeva una grandissima voglia di raccontarsi ed essere ascoltato da qualcuno.
Purtroppo o per fortuna, questo qualcuno quella volta ero io.
Una ragazza di 30 anni, con poca esperienza professionale rispetto alla sua, che secondo la sua visione doveva “insegnargli come fare il suo lavoro”. Parole sue.
Il primo incontro è iniziato con un suo ritardo.
Lui arriva, si siede e non pronuncia neanche una parola.
A questo punto, abbastanza intimidita dalla situazione, provo comunque a presentarmi e a spiegarli nuovamente perché ci stiamo incontrando e cosa andremo a fare nei prossimi incontri.
Da lì è iniziato un gioco di forze contrastanti, nel quale io provavo a far capire le ragioni di quell’intervento (tra l’altro obbligatorio, per poter accedere agli aiuti previsti dal progetto) e lui trovava tutti i modi per smontare non solo il lavoro che stavo provando a fare, ma anche me come persona.
Mi sentivo arrabbiata, confusa e volevo solo andarmene via di lì.
Finchè mi sono accorta, come in un lampo, che se avessi continuato a giocare su quel campo, avrei sicuramente perso. Non solo la battaglia (perché lui la sentiva così), ma anche la mia autostima come professionista. Quella che faticosamente mi stavo costruendo negli anni.
E allora… ho cambiato le carte in tavola.
Ho alzato le mani e gli ho detto “Io non ho da insegnarle nulla, è vero. E lei, alla fine, non è obbligato a stare qui. Se lei pensa di star perdendo il suo tempo con me, è liberissimo di andarsene, io non la trattengo.”
A quel punto di ha guardata sbarrando gli occhi, un po’ sorpreso.
Ha preso il borsello e la giacca, si è alzato dalla sedia e ha fatto per andarsene… ma alla fine è tornato indietro.
E’ tornato, ricominciando a parlare… ma questa volta il suo tono stava cambiando.
Stava iniziando ad aprirsi, pian piano.
Ha iniziato a raccontarmi di suo padre e della sua malattia.
Della vita passata in azienda, del suo capo e dell’impossibilità, nonostante fosse davvero bravo nel suo lavoro, di scalare la vetta della gerarchia, perché non aveva terminato gli studi.
Parlammo tantissimo, della sua vita personale e professionale.
E quel colloquio durò molto, tanto da sforare nel tempo dell’incontro successivo.
Fu un incontro molto intenso, alla fine, e prima di andarsene, mi disse: “Alla fine mi sembra davvero brava, a fare il suo lavoro”.
LA CHIAVE DI TUTTO È L’ASCOLTO
Perché ti ho raccontato questa mia storia?
Perché in quella situazione ho capito che la chiave della nostra professionalità non sta nel metterci a confronto con la professionalità delle altre persone.
Non dobbiamo sembrare esperti, o grandi, o dinosauri.
Dobbiamo semplicemente metterci in ascolto.
A volte facendo uno, due o tre passi indietro.
Forse questo è il segreto di Pulcinella, ma penso sia davvero difficile da mettere in pratica.
Perché va a scontrarsi con le nostre emozioni di inadeguatezza e di frustrazione.
Ma è proprio lì, in quella frustrazione, che sentiremo l’altro e quello che ha da raccontarci.
Proviamo a starci, allora, in questa frustrazione: sentirci piccoli, indifesi e inesperti.
A porci in ascolto dell’altra persona stando in questa emozione, per comprendere davvero ciò che l’altro vuole comunicarci.
Anche sul digitale, quando proviamo a comunicare mascherandoci da espertoni o guru, non funziona; cerchiamo di essere noi stessi, con le nostre umane fragilità.
E mettiamoci in ascolto.
Alla prossima settimana con un’altra Domanda nella Rete!
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